Caos Brexit: luce in fondo al tunnel?

Nonostante la conquista di una forte maggioranza conservatrice con le elezioni del 12 dicembre, la Brexit è (still far from) “done”.

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La notizia del giorno è indubbiamente quella della schiacciante vittoria dei conservatori di Boris Johnson nelle elezioni parlamentari britanniche, tenutesi nella giornata di ieri. Il voto, che ha sostanzialmente costituito un referendum sulla Brexit (“Get Brexit Done!”, è stato lo slogan del primo ministro uscente), era stato convocato da Johnson nella speranza di ottenere una maggioranza forte alla Camera dei Comuni e riuscire quindi a risolvere lo stallo sulla Brexit, approvando l’accordo negoziato con l’Unione.
Con 365 seggi conquistati – a fronte di un minimo di 326 necessari per avere una maggioranza interamente Tory – l’obiettivo risulta ampiamente raggiunto; dopo 3 anni di incertezza e trattative, la prospettiva di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione sembra oggi più certa che mai.

La reazione della sterlina

La valuta britannica ha reagito molto positivamente alla notizia del risultato elettorale: già a fronte dei primi exit polls di ieri sera, la sterlina ha registrato un balzo del 2% rispetto al dollaro, apprezzamento parzialmente rientrato nel corso della giornata odierna. Nel complesso, negli ultimi 2 giorni la valuta ha registrato un rafforzamento dell’1.84% rispetto al dollaro.

tasso di cambio verso il dollaro della sterlina

Come si può notare dal grafico, il trend di ripresa del pound nei confronti del dollaro era già cominciato da un po’: la riconferma del partito uscente costituiva quindi un risultato in parte già scontato – e sperato – dai mercati.
Infatti, benché la Brexit sia stata a lungo percepita dai mercati come fattore penalizzante per l’economia britannica, la certezza del raggiungimento di un accordo di uscita ordinato e regolato, rispetto alla prospettiva di prolungata incertezza, risulta a questo punto un’opzione desiderabile.

Anche le borse europee hanno reagito positivamente alla notizia nella giornata di oggi, supportate anche dall’ottimismo per l’apparente raggiungimento di un phase one deal tra gli Stati Uniti e la Cina sul fronte guerra commerciale.

Le prospettive e le difficoltà

I mercati confidano quindi ora in una soft Brexit: data la forte maggioranza conservatrice emersa dalle elezioni, il nuovo governo di Boris Johnson non dovrebbe incontrare serie difficoltà per l’approvazione dell’accordo di uscita dall’UE negoziato a fine ottobre. Se ciò avverrà, la Gran Bretagna uscirà formalmente dall’Unione il 31 gennaio 2020.
Si tratterà però soltanto di uno step formale: successivamente a questa data partirà un periodo di transizione, durante il quale per il Regno Unito sarà ancora valida la legislazione UE, così come la sua politica commerciale, interna, relativa alla difesa e agli affari esteri. Il periodo di transizione terminerà il 31 dicembre 2020, ma gli analisti sono concordi nel ritenere improbabile la conclusione delle negoziazioni di un accordo commerciale entro quella data. Il primo ministro potrebbe essere quindi costretto a chiedere una proroga, posticipando la data di effettiva uscita.

Nel frattempo, dall’altro lato dell’Atlantico, il presidente americano Trump gioisce per la vittoria di Boris Johnson, aprendo le porte per un accordo di libero scambio col Regno Unito, una volta che la Brexit sarà effettiva.


Nonostante i segnali di distensione, le sfide che il nuovo governo dovrà affrontare si intravedono già distintamente all’orizzonte. Queste elezioni hanno infatti consacrato un rafforzamento dello Scottish National Party (SNP), il partito indipendentista scozzese, contrario all’uscita del Regno Unito dall’Unione. A fronte di ciò, e nonostante la dichiarata opposizione del PM Johnson, il primo ministro scozzese e leader dello SNP Nicola Sturgeon ha dichiarato che chiederà formalmente al governo di Londra il permesso di indire un secondo referendum sull’indipendenza, dopo quello del 2014 che aveva consacrato la vittoria del fronte del no.
In Irlanda del Nord, invece, i partiti cattolici nazionalisti, favorevoli ad un’Irlanda unita, hanno guadagnato più seggi del Democratic Unionist Party, che propugna la permanenza dell’Irlanda del Nord nel Regno. Anche su questo fronte si prospettano quindi potenziali focolai di tensione.
Ulteriore elemento di rischio è l’eventualità, precedentemente citata, di non riuscire a raggiungere un accordo commerciale con l’Unione entro la fine del 2020. La richiesta di una proroga, oltre ad andare contro le iniziali promesse di Johnson, potrebbe infatti incontrare l’opposizione dei Brexiteers più radicali. Il rischio di una no-deal Brexit non è quindi ancora completamente scongiurato.