Teorie del commercio internazionale: dalla Old Trade Theory alla New-New Trade Theory

Evoluzione delle teorie del commercio internazionale: dalla teoria classica ai nuovi paradigmi focalizzati sulle imprese

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Una delle decisioni più strategiche per un'impresa è quella di avviare un percorso di internazionalizzazione. Per prendere questa decisione, l'impresa deve aver prima raggiunto la consapevolezza di:

  • poter risultare competitiva sui mercati esteri;
  • poter ottenere dei benefici dall'internazionalizzazione.

Mentre la risposta alla seconda domanda è abbastanza scontata in quanto i benefici ottenuti dall’internazionalizzazione consistono in una crescita dimensionale dell’impresa e in una riduzione del rischio di mercato grazie alla diversificazione geografica; la risposta alla prima domanda richiede un maggiore approfondimento. A questo fine, può essere conveniente analizzare le teorie sul commercio estero e cogliere indicazioni utili per la decisione di intraprendere un percorso di internazionalizzazione.

Sin dai tempi di Adam Smith e Ricardo, padri dell’economia classica, gli economisti si sono interrogati sulle motivazioni che spingono i paesi a scambiarsi tra loro beni e servizi. Partendo dalle fondamenta poste da David Ricardo con la teoria dei vantaggi comparati, i modelli teorici sul funzionamento del commercio internazionale hanno progressivamente incorporato nuove ipotesi per cercare di spiegare al meglio le dinamiche commerciali globali. A partire dagli anni Novanta, infatti, il focus si è spostato sempre più da un livello macro a uno micro, ponendo l’attenzione sulle imprese, vere protagoniste degli scambi commerciali, e sull’interazione tra le loro caratteristiche specifiche e l’attività di esportazione.
Lo scopo di questo articolo è quindi illustrare il percorso che ha portato alla nascita della cosiddetta “New-new trade theory" e di come questa abbia rivoluzionato lo studio del commercio internazionale.

La teoria classica e neoclassica del commercio internazionale

I modelli di Ricardo (1817) e di Hecksher-Ohlin (1919 e 1933), pilastri della teoria classica e neoclassica del commercio internazionale, si basano sul concetto di vantaggio comparato per spiegare gli scambi di beni tra paesi[1]. Il modello di Ricardo sostiene che i paesi tendono ad esportare i beni per cui hanno un vantaggio comparato nella produzione rispetto agli altri paesi (famoso è la citazione del caso del vantaggio comparato nella produzione di vino del Portogallo, a fronte di quella inglese nei tessuti). Gli economisti Hecksher e Ohlin allargano le conclusioni del modello ricardiano, suggerendo che i paesi si caratterizzano di una diversa disponibilità di risorse impiegate nella produzione (capitale e lavoro), per cui essi si specializzeranno nella produzione di quei beni che utilizzano in modo più intensivo il fattore di produzione di cui sono più abbondanti.

Tuttavia, questi modelli, focalizzati esclusivamente sugli scambi tra settori diversi (commercio inter-industriale), non riescono a spiegare perché una grande parte del commercio internazionale avvenga tra paesi simili per dotazione di fattori e all'interno degli stessi settori (commercio intra-industriale). Questo limite ha portato allo sviluppo di “nuovi” modelli, come quelli di Krugman (1980) e Helpman-Krugman (1985), che, includendo le economie di scala, la differenziazione dei prodotti e la concorrenza imperfetta, hanno posto le basi della nuova teoria del commercio internazionale, nota come New Trade Theory. Le teorie più recenti dimostrano infatti che anche paesi identici per tecnologia e dotazioni di fattori potranno beneficiare dall’apertura commerciale se scambiano beni differenziati. I prodotti differenziati possiedono particolarità individuali tali per cui, pur avendo caratteristiche simili ad altri beni, non sono considerati sostituti perfetti dai consumatori. Un classico esempio a riguardo sono i capi di abbigliamento o le automobili.

Formalmente, esistono due approcci per spiegare la domanda dei consumatori per i prodotti differenziati.

  • Amore per la varietà: ogni consumatore predilige un mercato in cui è disponibile una maggiore varietà della stessa tipologia di bene;
  • Varietà ideale: il presupposto alla base di questo approccio, è che ogni prodotto possieda un insieme di caratteristiche diverse (forma, colore, materiale ecc..). I consumatori sceglieranno il bene più vicino alla propria varietà ideale e il mercato sosterrà più imprese che forniscono prodotti simili.
	Capacità di attrarre talenti

La presenza di eterogeneità tra le imprese e la New-new trade theory

I modelli precedenti hanno generalmente assunto la competizione nei mercati globali come un confronto tra paesi, trascurando il ruolo cruciale delle imprese come principali generatori dei flussi di importazione ed esportazione. Inoltre, sia nella teoria classica che in quella moderna del commercio internazionale, si è spesso adottata l'ipotesi di una sola impresa rappresentativa per l'intera economia. Questa semplificazione, sebbene utile per l'analisi dell'equilibrio generale, non riflette la realtà, poiché le imprese all'interno dello stesso settore possono variare significativamente in termini di produttività, capitale e competenze. Dunque, a partire dal modello di Bernard e Jensen del 1995, è emersa una nuova prospettiva per lo studio del commercio internazionale: utilizzando le imprese come unità di analisi anziché i paesi, è stata delineata la cosiddetta "New-new trade theory". Questa teoria, che si concentra sulla varietà tra le imprese all’interno dei settori, è stata ulteriormente sviluppata negli anni duemila con i modelli di Melitz (2003), Helpman et al. (2007) e Bernard et al. (2007).

L’inclusione dell’ipotesi di eterogeneità tra le imprese nei modelli di commercio internazionale ha fornito risultati rilevanti per comprendere come le caratteristiche delle imprese influenzino l’attività di esportazione. Utilizzando i dati del settore manifatturiero statunitense a livello di impresa, Bernard e Jensen (1995, 1997 e 1999) hanno rilevato differenze significative tra imprese esportatrici e non esportatrici in termini di dimensioni, produttività, intensità di capitale, tecnologia e salari. Integrando l’ipotesi di eterogeneità tra le imprese nel modello intra-settoriale di Krugman del 1980, Melitz nel 2003 ha sviluppato un modello per spiegare il motivo per cui solo poche imprese altamente produttive sono impegnate nell’attività di esportazione. Queste, infatti, riescono a realizzare profitti sufficienti a coprire i costi fissi di ingresso nei mercati internazionali. Si verifica così un effetto di “auto-selezione” che determina quali imprese diventeranno esportatrici in ogni settore.

In particolare, il modello di Melitz assume che le imprese all’interno di un settore operino in un contesto di concorrenza monopolistica, offrendo prodotti differenziati orizzontalmente. Per avviare la produzione sul mercato domestico e per entrare sui mercati esteri, le imprese devono sostenere dei costi fissi, che diventano poi irrecuperabili. Questo comporta due principali conseguenze:

  • le imprese che presentano una produttività inferiore a una determinata soglia non riescono a coprire i costi di produzione, quindi sono costrette a uscire dal mercato
  • l’attività di esportazione viene effettuata solo dalle imprese che riescono a superare la barriera all’entrata sui mercati internazionali.
	Infografica imprese eterogenee

Quando nuove imprese con livelli di produttività più alti rispetto a quelle già attive entrano nei mercati internazionali, la soglia di produttività necessaria aumenta, facendo uscire le imprese meno produttive. Questo meccanismo di “auto-selezione” e la riallocazione delle risorse verso imprese più produttive dimostrano che la liberalizzazione del commercio può aumentare la produttività del settore. Infatti, una riduzione delle barriere commerciali globali aumenterebbe i profitti degli esportatori e abbasserebbe la soglia di produttività necessaria per esportare. Ciò porterebbe a un aumento delle esportazioni, a una maggiore domanda di lavoro e a un incremento dei prezzi dei fattori produttivi, riducendo i profitti delle imprese non esportatrici. Di conseguenza, le imprese poco produttive usciranno dal mercato, mentre il trasferimento di risorse verso le imprese più produttive migliorerà la produttività aggregata.

Conclusioni

Mentre la Old e la New Trade Theory si sono concentrate principalmente sulle differenze tra paesi in termini di dotazioni di risorse o tecnologia assumendo che tutte le imprese all'interno di un settore fossero omogenee, la New-new trade theory ha segnato un importante progresso nella comprensione del commercio internazionale. Focalizzandosi sull’eterogeneità delle imprese all’interno dei settori, questa teoria ha permesso di comprendere meglio i fattori che influenzano la competitività e la capacità di esportazione delle imprese. Questo avanzamento è stato reso possibile anche grazie alla crescente disponibilità di dati a livello di impresa, che hanno consentito un'analisi più precisa delle dinamiche commerciali e l'identificazione di relazioni causali che sarebbero rimaste nascoste in un'analisi basata su dati aggregati.

Infine, l’analisi della teoria economica illustrata fa emergere due spunti principali, utili per valutare la decisione di intraprendere un percorso di internazionalizzazione:

  • le imprese che producono beni che hanno una specializzazione locale (per le caratteristiche del prodotto, per il processo o per gli input), se sono competitive sul mercato interno e se esiste una domanda per quel prodotto sui mercato esteri, è probabile che risultino competitive anche sui mercati esteri.
  • se l'impresa non ha vantaggi comparati di localizzazione, per internazionalizzarsi deve aver raggiunto un adeguato livello di produttività e deve basare il suo posizionamento sui mercati esteri attuando strategie di differenziazione.
[1] Un paese ha un vantaggio comparato nella produzione di un bene quando può produrlo a un costo-opportunità inferiore rispetto ad altri paesi.